L'Italia degli anni di piombo by Indro Montanelli & Mario Cervi

L'Italia degli anni di piombo by Indro Montanelli & Mario Cervi

autore:Indro Montanelli & Mario Cervi
La lingua: ita
Format: azw3
ISBN: 9788858642955
editore: bur
pubblicato: 0101-01-01T00:00:00+00:00


CAPITOLO DECIMO

L’ORA DI CRAXI

Le amministrative del 15 giugno 1975 furono un disastro per la DC, un trionfo per il PCI, e un terremoto politico per l’Italia. I dati differiscono secondo che siano presi in esame quelli regionali o quelli provinciali. Sta di fatto che il partito di maggioranza relativa perse, nelle regioni ordinarie, due punti e mezzo in percentuale, scendendo a poco più del 35, il PCI guadagnò il sei e mezzo per cento, qualche progresso lo registrò anche il PSI. Ormai Berlinguer era, con il suo 33,45 per cento, a ridosso di Fanfani, e pronto al sorpasso. In una ampia relazione il segretario DC spiegò quali fossero, a suo parere, le cause dello smacco: il voto giovanile (per la prima volta erano andati alle urne i diciottenni) e poi «il confluire sul PCI della maggior parte dei voti di aderenti ai gruppi extraparlamentari, il confluire di elettori democristiani influenzati dal dissenso cattolico, il manifesto favore dei sindacati, la critica di alcuni settori imprenditoriali alla politica economica e sociale, il contributo spregiudicato di certi settori della stampa e dell’editoria alla critica corrosiva sulla situazione italiana». Infine «la presentazione perbenistica, interclassista e tranquillante della propria [del PCI, N.d.A.] proclamata nuova fisionomia».

L’irriducibile piccoletto era comunque risoluto a continuare la battaglia: ma le sue truppe disertarono presto. In un Consiglio nazionale DC del luglio 1975 una mozione fanfaniana fu messa brutalmente in minoranza (69 sì, 103 no, 8 astenuti). La poltrona di Fanfani era pronta per un nuovo occupante. Furono affacciati e scartati i nomi di Piccoli e di Rumor. Moro ne aveva in serbo (l’aveva da un decennio, ma non era mai riuscito a estrarlo dal suo cappello di grande manipolatore) un altro: quello di Benigno Zaccagnini, presidente del Partito.

Zac divenne segretario, i dorotei che gli erano contrari non osarono nemmeno loro dirgli no, e si limitarono a votare scheda bianca. Zaccagnini era presentato come «il beniamino dei giovani, il portabandiera del rinnovamento, un galantuomo». A questo proposito Italo Pietra ha citato, nella sua biografia di Moro, un’osservazione di Gramsci su un altro galantuomo, Vittorio Emanuele II: «Si dovrebbe pensare che in Italia la stragrande maggioranza fosse di bricconi, se l’esser galantuomo veniva elevato a titolo di distinzione».

Galantuomo, Zaccagnini lo era davvero. Nato a Faenza il 7 aprile del 1912, aveva studiato da medico, e si era specializzato in pediatria. Gli inizi della professione ne erano stati, per lui, anche la fine: perché gli impegni pubblici l’avevano presto assorbito. Nel breve periodo in cui l’aveva esercitata, s’era distinto per disinteresse e umanità. Curava gratuitamente i poveri, ed esitava a chiedere un compenso a chi povero non era.

Che cosa l’abbia indotto a immergersi attivamente nella vita d’un partito – nel caso specifico la Democrazia cristiana – è difficile da capire. Così leale e aperto – papa Giovanni XXIII gli disse un giorno con affetto «hai la faccia pulita come la tua anima» – sembrava l’uomo meno adatto a far strada in politica. Ma forse i furbi maneggioni che nella politica si crogiolano intuirono



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